C’era una volta un paese lontano lontano di nome Pempe, piccolo villaggio di marinai e pescatori, dove il mare non era solo mare, ma una promessa. Prometteva cibo, danaro, ricchezza e, soprattutto, prometteva sogni. Si, il mare di Pempe era proprio un mare speciale. Le onde, infrangendosi sulla riva, sussurravano a chi le fissava storie di regni remoti, che avvenivano lì, proprio oltre l’orizzonte, proprio oltre quella linea color nulla che divideva l’acqua dal cielo.
Quando il sole si nascondeva dietro il mare, palla di fuoco che pareva cadere nell’immensità del blu, Pimpa era solita raggiungere la spiaggia. Portava con sé un libro, che mai leggeva, sedeva su uno scoglio, ammirava l’infinito che si spalancava davanti ai suoi occhi, ammirava la montagna bianca che scendeva a precipizio sul mare, la Scala dei Turchi la chiamavano, ed immaginava uomini dalla pelle bruciata dal sole che, abbandonate le loro navi arabe, scalavano la bianca roccia per saccheggiare le coste della Sicilia e non si chiedeva se questa fosse solo una leggenda popolare, come le storie che aveva letto ne “Le mille e una notte” e sognava, immaginava, vedeva quegli uomini dagli occhi pieni di speranza, voglia di conquista e dolore. Ma, ad attirare la sua attenzione erano due scogli, due piccoli sassi in confronto alla maestosità della bianca roccia, che venivano fuori dal nulla, dall’immensità del mare dai fondali limpidissimi. U scogliu do zitu e da a zita, così si chiamavano. Pimpa li fissava ammaliata perchè essi le raccontavano una storia di un tempo lontano, quando due innamorati, ostacolati da un padre crudele e malvagio, si gettarono dall’alto del promontorio giurandosi amore eterno. E nel punto esatto in cui caddero nacquero quei due scogli che, a guardarli da lontano, sembrano due corpi vicini adagiati sull’acqua, che si sfiorano baciandosi.
Una storia da Montecchi e Capuleti, Shakespeare ci avrebbe cambiato qualche scena: con quel paesaggio splendido, altro che triste cripta dove far ammazzare due giovani innamorati. Insomma, Romeo e Giulietta sarebbe da riscrivere, pensava Pimpa. E così, con gli occhi pieni di cielo color tramonto, col cuore che batteva forte seguendo il ritmo delle onde del mare e coi capelli che odoravano di vento, Pimpa abbandonava il suo scoglio che comodamente l’aveva accolta e, dando le spalle alla roccia d’argilla baciata dal sole, si incamminava sulla battigia, fissando le orme dei suoi passi che, dopo brevi istanti, sparivano nel nulla, come a volerle ricordare che lei non era mai stata lì. Una volta a casa, dava un bacio alla sua mamma e alle sue sorelle, sorrideva felice della sua famiglia apparentemente matriarcale, dove numericamente le donne erano superiori agli uomini ma dove un solo uomo riusciva a tenerle a bada con un solo sguardo, un consiglio, una parola. Abbandonava sorrisi, risate spensierate che accompagnavano racconti vari e raggiungeva la sua camera, il suo rifugio. Passava ore sul suo letto, con la testa poggiata su un cuscino al quale forse arrivavano i pensieri che la sua mente elaborava, glieli confidava. Leggeva, divorava libri, fisicamente ferma, immobile in un stanza qualunque di una casa qualunque di Pempe, ma viaggiava. Aveva conosciuto il mondo attraverso pagine e pagine di emozioni. Da lì, aveva imparato a conoscere la gente. Era protagonista di tutti i libri da lei letti, sentiva le emozioni di personaggi mai esistiti, calde lacrime vere bagnavano il suo volto per amori che lei non aveva vissuto. E mille volte amò, mille volte soffrì, mille volte morì e mai si stancò di vivere vite non sue. Voleva una vita piena di emozioni e per questo mai si accontentò. Ascoltava con volto sereno e sorrisi leggeri i racconti delle sue amiche che, crescendo, impararono l’arte di amare. Ma non vedeva nei loro occhi quel qualcosa che brilla di mille luci, quel qualcosa simile ad un sogno.
E così attese. Il principe azzurro arrivò. Senza calzamaglia, senza cavallo bianco e senza pennacchio. Di azzurro aveva gli occhi, che le ricordavano il mare della sua Pempe. Fu un amore di sogno e realtà, vero, intenso, vissuto. Per lui mille volte aveva amato, mille volte aveva sofferto, mille volte era morta ma mai si stancò, proprio come le sue eroine. Pimpa crebbe e venne il momento di lasciare la sua Pempe, dove il tempo sembrava non passare mai, nonostante le lancette di orologi appese ai muri scandivano lo scorrere delle ore. Arrivò in una grande città, con suoni, odori, colori distanti anni luce dal suo regno ormai lontano. Non ebbe paura, aveva imparato che la vita era un rischio, senza rischio non ci sono emozioni, senza emozioni non esisterebbero libri. E lei questo voleva: vivere come in un libro. Ma imparò anche a vivere di realtà, fatta di bollette da pagare, scadenze da rispettare, esami da sostenere, fare il bucato, spazzare, pulire, preparare il pranzo, la cena, il caffè al mattino, fare la spesa, perdersi tra gli scaffali dei supermercati, comparare prezzi, scegliere. Un giorno il principe azzurro la chiamò dal suo regno lontano lontano dove egli si era trasferito: non la raggiunse nessuna missiva con della ceralacca, come immaginava leggendo quei romanzi ottocenteschi che le avevano fatto credere che il “vissero felici e contenti” fosse possibile. Il principe, con frasi regali e nobili, le disse addio. Altro che incantesimi, anatemi, streghe cattive, mele e fusi avvelenati! Il principino molla la sua principessa senza tanti fronzoli e giri di parole, quanta fatica si sarebbe risparmiata la Disney! Da quel momento arrivarono altri principini con i quali Pimpa fece un percorso, lunghe passeggiate a piedi, senza cavallo bianco. Crebbe. Questa volta senza tomi, libri, volumi. Finalmente fu la protagonista del suo libro. Lo scriveva pagina dopo pagina. E capì che da sola era la migliore protagonista che un best seller avrebbe potuto avere. Si guardava intorno e leggeva solitudine, disperazione, infinita tristezza negli occhi di quelle amiche che al suo “come stai?” rispondevano “Benissimo! Una favola”. Ma non sapevano che Pimpa aveva acquisito un dono: leggere la gente. E sapeva che se la loro era una favola non era di certo con un lieto fine.
Ogni tanto faceva ritorno nella sua Pempe. La gente del paese non la riconosceva più, le capitava di allungare la mano e presentarsi con persone conosciute anni addietro, ma che non ricordavano il suo volto e si chiedevano curiosi “Tu sei davvero di Pempe?”. Le vicine la credevano una snob, semplicemente perché non raccontava di sé, non sbandierava a destra e manca la sua vita, come i panni stesi ad asciugare nei loro balconi sotto il sole caldo di Pempe. E chissà cosa dicevano su lei. Pimpa non lo volle mai sapere e forse mai se lo chiese, sorrideva sotto i loro sguardi curiosi mentre, con la sua valigia piena di vestiti e di speranze, ripartiva.
Ripartiva per una méta che méta non è mai stata. Sapeva che prima o poi le suole delle sue scarpe avrebbero calpestato strade di chissà quali altre città, di vie che si aprono ad altre vie, dove perdersi ancora, per ritrovarsi. Perché Pimpa, dagli occhi grandi e tristi, era avida di vita. Rubava brandelli di esistenza trovati qua e là, non era mai paga. Scavava dentro le persone col suo sguardo curioso e non le bastava mai. Ogni posto che visitava lo sentiva suo e, quando se ne separava, sentiva una strana fitta dentro, di dolore. Quel posto se lo portava nel cuore, ovunque lei andasse. Lei possedeva tutto e tutti. Ma chi possedeva lei? Tanti tentarono di fermarla, ma nessuno riuscì mai a capire dove andasse con la mente Pimpa di Pempe che, nonostante fosse circondata da centinaia di persone, continuava a chiedersi quale fosse il suo posto nel mondo.