Solfeggio

Sentire il prorpio eco, quasi come svuotati. Usare se stessi come cassa di risonanza per far parlare qualcosa o qualcuno che vive dentro di noi e che per troppo tempo abbiamo messo a tacere, o che semplicemente non siamo riusciti ad ascoltare a tempo debito. Capisci allora che deve esserci un tempo per tutto, è necessario affinchè tu possa concretizzare, finalmente. Alcuni riescono a rimandare così a lungo, che sembra non arrivare mai, quando cominci a cercarlo sui fogli del calendario e nell’incessante ticchettare di un orologio, che ti ricorda che “quel” tempo lo hai lasciato andare via tu. Ed era in quel tempo volutamente ignorato, che tutto doveva accadere, le lacrime dovevano scendere a bagnare le tue   guance ed essere ascoltate dalle uniche orecchie che avrebbero potuto capire.

Ma non si è dimenticato di te, torna indietro, proprio quando pensi di avere costruito il carapace più resistente e ti stupisci di quanto forte tu possa essere. Invece, ti ritrovi sdraiato a guardare il soffitto  che si colora di affreschi, che sono pennellate di una lunga vita vissuta con disarmante semplicità, e che per ventisei anni sono state anche la tua di vita. Lo sguardo si posa su una vecchia foto che mostra una giovanissima bellezza, custodita da anni nel tuo portafoglio, su una confezione di pillole che porta ancora incisa la fanciullesca grafia. E  senti quel profumo. Sabato ne hai portato un po a casa, raccogliendo quei delicatissimi fiorellini bianchi, con la consapevolezza che lo avresti annusato per poche ore. E che per poche ore saresti stata di nuovo li.

Il tempo guarisce tutto, dicono. Si somatizza, si metabolizza, si elabora, si dimentica. Ma ci sono ricordi che non si possono scordare. Li hai scritti sulle ginocchia e sui gomiti, li hai sulla guancia sinistra, come un segno lasciato da un bacio appiccicoso di rossetto, li porti alle dita delle mani. E tornando in una casa diversa cominciano a martellarti la testa e fanno si che tu in quella casa non ci possa più tornare, perché martellano così forte da avere lesionato il carapace.

E adesso? Continui a sorridere, a volte troppo forte da sentire male ai muscoli, ed è la cosa migliore che tu possa fare. Ti impegni in mille progetti, che magari non si realizzeranno mai, ma ne sarà valsa la pena. Ricordi di essere stata li, fino a quando l’occhio si è perso nelle  viscere di un baratro che ti ha riportato con i piedi ben piantati a terra. E ti senti sola, lontana da un abbraccio desiderato e che adesso potrebbe significare tutto. Ma guardandoti allo specchio sai che la solitudine non esiste, che alzandoti la mattina senti ancora l’odore del caffè mischiato a quello del detersivo per i pavimenti, lucidissimi dall’alba, quasi consumati dalla routinaria cura e che per questo sapevano di certezza. Pensi a una parola, a una filastrocca, a un proverbio al sapore del pane caldo con lo zucchero e ti rivedi seduta su una sedia troppo alta con i piedi penzoloni e con dita orgogliose a indicare i tuoi anni o a toccare il vuoto dove prima c’era un dentino, miracolosamente diventato un banconota. Probabilmente è questo il segreto, tutto può essere “per sempre”. Capisci di stare solfeggiando al ritmo di quel tempo.

Il carapace, forse, non ti serve più.

Cassandra

Strana. Si diceva in giro fosse  una donna strana.  Eppure chi la vedeva attraversare a piedi le strade del paese non riusciva a definire cosa di strano ci fosse in lei. Gli occhi della gente si poggiavano su di lei alla ricerca di un particolare che potesse palesare la sua diversità, ma sguardi troppo semplici non riuscirono mai ad afferrare l’inafferrabile.

Si chiamava Cassandra, un nome che sin dalla nascita pareva volesse preannunciare una mitologica ed enigmatica esistenza e aveva  23 anni quando, una calda notte d’estate, sparì nel nulla, come inghiottita da quel mare nero come i suoi occhi che amava fissare per ore ed ore dalla sua finestra.  Viveva in una casa sulla spiaggia dalla quale si poteva sentire a qualsiasi ora del giorno e della notte il rumore ipnotico dell’immensa distesa blu e chi era stato lì affermava che era una casa magica poiché, una volta entrati, si aveva come  la sensazione di non essere più gli stessi.  Sola. Tra quelle mura che sapevano di acqua e sale, Cassandra era sola. Nessuno seppe mai che fine avessero fatto i suoi genitori: si diceva in giro che l’avessero abbandonata lì e che lei, creatura quasi divina, fosse stata allevata da mani invisibili, come da fantasmi benevoli che qualcuno avesse mandato li per lei, in quella casa color oro come la sabbia. Era bella Cassandra, di una bellezza difficile da descrivere. Non bastava raccontare dei suoi lunghi capelli neri come l’inchiostro, dei suoi occhi dal taglio orientale, delle sue lunghe gambe che parevano danzare sulla riva del mare, delle sue labbra scarlatte che parevano essere state disegnate da un artista dalle mani eteree, della sua pelle bianca, quasi trasparente, come la spuma delle onde che sfioravano i suoi piedi nudi, infrangendosi sulla riva. Leggeva Cassandra. Nelle ore del tramonto si poteva vedere la sua sagoma china su un libro, mentre la brezza marina carezzava i suoi capelli e pareva portarla via da quel posto e il sole baciava la sua figura benedicendola. Era figlia della natura Cassandra. Era in perfetta armonia col mondo a lei circostante, pareva ascoltare quel mare che fissava senza mai stancarsi, come se le raccontasse quelle storie che poco prima aveva letto tra le pagine del suo libro, come se quel mare parlasse le lingue di centinaia di fiumi che bagnavano terre lontane e che poi in lui confluivano. Chiudeva gli occhi mentre il vento caldo pareva sussurrare alle sue orecchie storie di un nessun luogo e di un nessun tempo che lei voleva vivere fino all’ultimo respiro, con ogni singola particella del suo essere, fino a morirne. Voleva morire di vita Cassandra. Nessuno osò mai avvicinarsi a lei. Pareva una figura mitologica come il suo nome, una Musa mandata dagli dei sulla terra per svelare l’arcano mistero del mondo, una sacerdotessa giunta da chissà dove per far dono agli uomini delle sue profezie. Ma Cassandra non svelò mai a nessuno il suo vero dono: sapeva leggere la gente. Le bastava incontrare lo sguardo di un uomo e poteva leggere il suo passato, il suo presente, il suo dolore, le sue paure, le sue debolezze. Reggeva gli sguardi e vi scavava dentro. Famelica, assaporava fino all’ultima goccia quelle storie che nessuna voce  aveva il coraggio di raccontare, ma che lei ascoltava attraverso i suoi occhi neri. Ma qual era la sua storia?  Nessuno lo seppe mai. Nessuno seppe mai che la storia di Cassandra era la storia di mille uomini, di mille posti, di luoghi vissuti ma mai visitati se non con la forza dell’immaginazione. La storia di Cassandra era la storia di mille donne che avevano abitato in mille terre diverse: donne della misteriosa Africa dove, si raccontava, che i loro occhi venivano celati da un leggero velo di seta così  gli uomini, sfuggendo i loro sguardi, non venivano colpiti come da un incantesimo, principesse misteriose del lontano Giappone che ricevevano in dono non sfarzosi diamanti ma uccelli provenienti da tutto il mondo custoditi  in  grandi e maestose voliere e che, una volta giunta la felicità, aprivano la porta della variopinta gabbia e facevano volare via quelle magiche creature della natura che si sollevavano in volo con canti magici, come per celebrare il loro giorno di libertà.

Aveva conosciuto l’amore Cassandra. Se lo sentiva addosso, sfiorarle la pelle come le gocce di sudore durante le notti d’estate quando, in preda ad una strana agitazione, si svegliava col cuore in gola assaporando le sue labbra che sapevano della saliva di quell’uomo che, puntualmente ogni sera alla stessa ora, entrava nei suoi sogni e l’amava con tutta la disperazione di una passione mai sopita. Poteva sentire il suo odore Cassandra.

Era su di lei, sulla sua pelle, sui suoi seni e con quell’odore ogni notte si addormentava, non prima di ascoltare la voce di lui che dolcemente le sussurrava “Non  smettere mai di cercarmi, oltre la linea ci incontreremo”.  Una notte Cassandra si svegliò. Il cuore batteva più forte, il sudore freddo imperlava la sua fronte pallida come la luna che si specchiava sul mare nero. Tremava di paura. Immagini lontane si inseguivano nella sua mente, non c’era il sapore di lui a confortarla, il suo bacio caldo e rassicurante a proteggerla dal buio della notte, le sue braccia forti e possenti a sollevarla per farle raggiungere le vette del piacere che ogni notte, puntualmente, la facevano svegliare bagnata di piacere e di sudore. Non sentì alcuna frase provenire dalle sue labbra, nessuna promessa quella notte salvò Cassandra dal suo fatale destino. Il suo amore gli venne in sogno ma una morsa di dolore segnava il suo volto. Era su una piccola imbarcazione di legno che tentava di difendersi dalla violenza di un mare in tempesta che pareva voler inghiottire quella barca che, come la zattera di Medusa, portava con sé uomini possenti divenuti fragili dalla sete, dalla paura della morte che quell’infinito mare nero prometteva loro. Il suo uomo, di cui non seppe mai il nome, ma che per anni ogni notte le teneva compagnia in un sogno reale più della stessa realtà, la guardava con occhi pieni di rimpianto e di dolore perché sapeva che stava per dirle addio. Con voce flebile dallo sforzo e dalla spossatezza riuscì ad aprire la bocca arsa dalla sete e dal sale e pronunciò quelle parole: “Non  smettere mai di cercarmi, oltre la linea ci incontreremo”. Nessuno seppe mai la storia di Cassandra. Lei che tutti conobbe senza mai nulla chiedere sparì nel nulla, come se mai avesse vissuto. Qualcuno disse di averla vista uscire dalla sua casa durante una notte di luna piena e, con una veste bianca come la neve e con passo lento come in una marcia funebre, muoversi verso il mare. Si disse che passeggiò attraversando l’acqua nera illuminata dalla luna e non smise mai di camminare fino a non vedersi più.  

Anni più tardi qualcuno ebbe il coraggio di oltrepassare l’uscio della sua casa color dell’ oro come la sabbia. Le mura sapevano di sale e di acqua e le pareti erano interamente nascoste da quei volumi dove Cassandra per anni visse. Qualcuno ebbe il coraggio di avvicinarsi ad un piccolo mobile di legno dove, bianco e spiegazzato, vi era un piccolo foglio di carta di riso. E lì sul bianco del foglio vi erano dei segni di inchiostro nero, che parevano ricordare orme di piccoli uccelli sulla sabbia bagnata. Qualcuno lesse ad alta voce nella casa vuota color sabbia, che sapeva di acqua e di sale, “Non  smetterò mai di cercarti, oltre la linea ci incontreremo, oltre la linea che separa il cielo dal mare. E’ li che ti troverò”.

 

Dal tramonto all’alba

La finestra spalancata lascia entrare la luce diurna che si poggia lenta sulla nostra stanza. Mi sveglia lo squillo del telefono. Abbandono la mia rassicurante posizione fetale, gli occhi abituati al buio fanno fatica a mettere a fuoco. Il telefono abbandonato sotto il cuscino mi comunica che c’è qualcuno che mi sta cercando, faccio fatica a trovarlo e smette di squillare. Mi guardo intorno.

Lei continua a dormire, con le braccia spalancate come in volo, vestiti sparsi un po’ ovunque, tolti di fretta dal sonno che incombe e dalla voglia di continuare a sognare ciò che poche ore prima abbiamo vissuto.  A gambe incrociate sul letto fisso i segni di vita intorno a me quando l’aroma del caffè, che giunge da chissà dove, mi ricorda che c’è una caffettiera ad attendermi per il buongiorno. A passi lenti e con la testa pesante per l’alcool ancora in circolo, attraverso il lungo corridoio e raggiungo la cucina ma alla soglia mi fermo: con espressione di meraviglia fisso i resti di  brandelli di felicità ammucchiati nel lavabo.  

La luce del sole irrompe nel mio sogno soffuso. Ho dimeticato di nuovo di chiudere la finestra, e anche lei a quanto pare. Mi allungo come un gatto, ma le mie braccia non la incontrano. Magari sarà gia in cucina a preparare il caffè. Vedo tutto intorno un coloratissimo disordine che mi strappa un sorriso. Mi siedo sul letto e lego d’istinto i capelli. Riconosco i vestiti provati e riprovati, ma mai indossati ieri sera che richiamano alla mente l’indecisione e l’eccitazione del momento. “Che mal di testa!”.

Mi alzo, la testa sospesa in una tempo in bilico tra la notte e il giorno, i piedi doloranti hanno ancora l’impressione di essere costretti dentro delle eleganti scarpe col tacco. Traballante raggiungo la cucina e la vedo, ferma sulla porta e fissare quel che rimane di un frangente di vita. Non ci diamo neanche il buon giorno, non serve. Ci limitiamo a stare l’una accanto all’altra a fissare qualcosa che è molto di più del semplice disordine, è felicità. Nessuna sembra prestare attenzione a chi c’è accanto, ma sappiamo di esserci, insieme a condividere un risveglio che avremmo voluto posticipare il più a lungo possibile. Il nostro sguardo, inconsapevolmente si poggia sugli stessi oggetti : i bicchieri, i piatti, i posaceneri. 

Bicchieri nascondono tracce di brindisi, piatti coi resti del piacere del palato ancora lì, posaceneri colmi di cicche di sigarette, il silenzio che fa fatica ad imporsi dinanzi a queste immagini che raccontano, sussurrando al mio orecchio, la gioia di vivere che ora sta lì, tra le stoviglie e bottiglie vuote di Merlot. 

Due complici occhi sono giunti a fare compagnia ai miei e adesso, una di fianco all’altra, ci chiediamo silenziosamente da dove cominciare. So quale dev’ essere il primo passo: cercare la caffettiera e due tazzine pulite che ci diano il giusto buongiorno. Ci muoviamo all’unisono, come guidate da un voce comune, lei cerca la caffettiera , io di recuperare due tazzine pulite. Tutto è sempre cominciato con il nostro caffè. L’impresa è ardua, eravamo in troppi ieri sera, ne lavo due. Non sono scelte a caso, sono prorpio le nostre, quelle di ogni giorno, quelle che troviamo ad aspettarci una accanto all’altra, con due biscotti sul piattino ad ogni risveglio. Mentre riempio il piccolo imbuto della polvere color terra bruciata, ad un tratto mi fermo e fisso la parete dinanzi a me, come se un rumore o un odore sopraggiunto mi avesse riportato indietro nel tempo. E con il cucchiaino in mano mi ritrovo a costruire immagini come tentando di dar forma ad un puzzle: l’ascensore mi porta al mio piano, cerco le chiavi tra la confusione della mia testa e la borsa, apro la porta chiusa con una sola mandata, sorrido, so che lei mi sta aspettando.

La caffettiera è gia sul fuoco. Ci sediamo una di fronte all’ altra immerse in un attimo in bilico tra il passato, che ci circonda dirompente, e un bollente futuro, dove entrambe sappiamo che ci butteremo a capofitto trascinate da un fiume di parole. Adesso che la nostra quotidianità comincia a prendere forma, vengo raggiunta dalle immagini sempre più chiare di ciò che è stato. Andando a ritroso la vedo entrare nella nostra stanza, attraverso la feritoia dei miei occhi che da troppo poco tempo avevano cominciato ad abituarsi a quella luce sfumata, calda, di un alba che si apprestava a diventare nuovo giorno, ma che per me era solo la giusta conclusione di una serata che sembrava essere senza fine. La aspettavo.  Mi tolgo le scarpe ancora prima di entrare, finalmente libera da quei tacchi scomodi che mi hanno retta per tutta la serata. Ma è come se la notte non fosse ancora entrata qui. La porta della nostra stanza è completamente spalancata, la luce accesa, il pc non ancora spento, la luce dell’alba si confonde con quella artificiale del lampadario, le tende seguono sinuose il movimento del vento lasciandomi intravedere la strada silenziosa di una città che dorme, proprio come sta facendo lei.  Guardo l’orologio alla parete, le lancette segnano le 5 del mattino. Sorrido e istintivamente porto un dito sulle labbra, che sanno ancora di lui. Ecco dove si è fermato il tempo, sulla mia bocca. Comincio a spogliarmi, attenta a non far troppo rumore che possa destarla dai suoi sogni.  


Entra, con i tacchi in mano, per non disturbare. Sorrido e la lascio muovere silenziosa e cauta, ma il disordine fatto di vestiti, scarpe, borse, creme, e trucchi ostacolano i suoi furtivi movimenti, smascherandone la presenza già avvertita. Mi siedo sul letto con le gambe incrociate, lei continua a spogliarsi dandomi le spalle. Una luce fredda attira la mia atenzione, spengo il pc dimenticato acceso, come la luce del lampadario sopra la mia testa.  Mi siedo sul letto pronta ad occupare quello spazio che lei mi ha lasciato, sto per sfilare la gonna quando la sento muovere. Col viso roseo color torpore e le labbra semichiuse che accennano ad un sorriso, mi cerca con lo sguardo, tentando di leggere quelle immagini che ancora sembrano scorrere nei miei occhi.  Ci guardiamo per un istante brevissimo, appena  percepito, come a non voler rivelare nulla, come a voler custodire ancora per un pò le nostre vite dentro uno scrigno segreto, inaccesbile e misterioso per molti. Non vogliamo sporcarle con un racconto fugace e impastato. Sorridiamo complici: tra qualche ora davanti alle nostre tazzine colme di caffè fumante, ci racconteremo tutto della nostra alba. 

Sogno

E’ notte. Come ogni notte, da mesi ormai, il signor X ha un appuntamento fisso. Deve svegliarsi, riuscire ad alzarsi da quel letto sempre più comodo della notte prima, prepararsi il più velocemente possibile e uscire, non prima di aver parlato con le pareti si capisce!

Si verifica sempre lo stesso problema però, non sa dove andare. Il che, come ogni notte, lo angoscia solo per un attimo. C’è sempre il tassista, ad aiutarlo. Appena lo vede uscire da quell’elegante e nuovissima villetta (sua solo nel sogno) esce dalla macchina, gli apre la portiera, e lo saluta con un caloroso: ”Buona notte! Come sta oggi?” .”Bene, grazie! Come sempre in ritardo però” dice il signor X per nulla sorpreso. “Non si preoccupi, saremo più veloci della luce!”. Così il taxi  parte lasciandosi dietro una nuvola di polvere azzurra sotto la luce lunare, e arriva sempre nello stesso posto. Riconosce il profilo di treni addormentati, rotaie erbose, polvere. In effetti è vero, il signor X arriva sempre in tempo per la riunione, la stessa da mesi, dove  sicuro e fermo espone le sue idee, valuta quelle dei suoi amici, confronta, analizza e alla fine decide. Strette di mano, grandi sorrisi e complimenti per l’importante traguardo raggiunto, la migliore decisione possibile! Ma cosa? Di cosa ha parlato? Cosa ha ottenuto? Perché tutti lo stimano? Chi è? A questo punto il signor X, da mesi ormai, comincia a muoversi sempre più pesantemente, comincia a sentire freddo nonostante le coperte, e allo stesso tempo sente l’odore del caffè. Cerca di rimanere in quel luogo, ma non ci riesce mai. Mai.

Lo sveglia un bacio, dolcissimo, lo stesso da vent’anni. Apre gli occhi e la vede, sorride rapido. Non le ha mai raccontato nulla, nonostante lei si fosse accorta della sua agitazione mattutina. Non voleva turbarla forse, o più probabilmente non voleva essere giudicato, lei è così realista, il sognatore è lui. Comincia la sua vera giornata, fatta di piccoli gesti, per carità sempre gli stessi magari anche noiosi, ma veri. Dopo il suo bacio c’è il suo caffè, bruciato da sempre, la doccia, l’autobus e il suo lavoro. Lavora in biblioteca. Gli era sempre piaciuto tantissimo, finalmente poteva stare tranquillo e fare quello che amava di più: leggere. Leggeva di tutto, dai libri di cucina ai manuali sull’arte della guerra, al giardinaggio ai grandi classici, alla letteratura per l’infanzia. Erano i libri a chiamarlo, volevano essere letti, così cominciava il lento corteggiamento: lui si avvicinava e cominciava a carezzare la copertina per saggiarne la ruvidità, poi li portava alle narici e inspirava profondamente, se ne ubriacava, li ascoltava. Erano loro a chiamarlo. Facevano in modo che lui si avvicinasse. Leggeva, pensava, leggeva, immaginava, leggeva, sognava, leggeva, viveva. Non era importante parlare con Lei, non avrebbe capito. In quell’atmosfera silenziosa e tenue dove tutto è sussurrato e anche solo un colpo di tosse è un  esplosione, lui era felice.

Finito il turno torna a casa, Lei lo aspetta già a tavola, stanca. Il signor X la guarda :”Com’è andata oggi?”. “Bene grazie, al solito” Si siedono uno accanto all’altro, le porzioni sono già fatte nei piatti e  i bicchieri gia pieni. Ognuno ha la sua razione  davanti, non riescono a condividere neanche il cibo ormai. Eppure si amavano così tanto, erano una cosa sola.

Si guardano “Buon appetito!”

Finito di mangiare Lei lava i piatti e il signor X li asciuga, ognuno assorto nei suoi pensieri. Il signor X guarda l’orologio : ”E’ ora di andare a letto”. Non aspetta altro,la notte, la sua vita. Ed ecco che tutto ricomincia uguale, sempre intenso e sempre identico. Il letto, la fretta, le pareti, il tassista, la stazione abbandonata ,gli amici, gli applausi e i sorrisi. Fuori albeggia, il signor X sembra saperlo. Comincia allora a muoversi, di nuovo, a tremare stavolta e ancora tenta di aggrapparsi con tutte le sue forze a quel luogo, a quelle mani, a quelle parole, a quel sogno, a quella vita dove sa di essere importante, dove sa di avere una soluzione . Ma è tutto inutile. Si sveglierà come sempre e vivrà la sua vita vera, quella

monotona, silenziosa, dove lui si muove in puna di piedi quasi a non volerla disturbare, sa di essere quello “sbagliato” dei due. Chiuso nel suo silenzio ha smesso di ascoltarla, e alla lunga, Lei  di parlare.

Sente l’odore del caffè e il bacio di Lei, dolcissimo, come ogni giorno. Apre gli occhi. Lei gli porge la tazzina , lo guarda bere con uno sguardo intenso che il signor X non ricordava neanche più :”Stai aiutando Faber, amore. Stai leggendo Fahrenheit 451”. Lui la guarda e le sorride: ”ti amo così tanto!”

Il mio camice bianco

La mia giornata comincia prestissimo. Quattro  sveglie in ripetizione a distanza di quindici minuti l’una dall’altra. 06.30-06.45-07.00-07.15. Doccia volante, vestiti comodi, scarpe da tennis e -“mannaggia!”- si brucia sempre il caffè. Non c’è tempo per il trucco e parrucco di rito, in realtà non servono.  L’unica cosa che mi serve è un sorriso e il mio camice bianco dentro lo zaino. In questi giorni sono in un ospedale che non è il mio, in un reparto che non è il mio, con pazienti che non sono miei. Ho sempre trovato curioso, sin dai primi anni di università, questo modo di riferirsi ai pazienti, come se fossero delle “cose” che ci appartengono.Magari per qualcuno è veramente così. I pazienti sono il numero di un anonimo e standardizzato letto, posto a destra o a sinistra di un’asettica stanza che odora di disinfettante – e Dio solo sa cos’altro – anch’essa numerata. Sono il nome di una patologia, di una tecnica chirurgica eseguita con successo, sono valori, consulti…Con il tempo, però, quel “mio” ha assunto un significato diverso per me.“Mio”, perché sono io a prendermi cura di te. “Mio”, perchè dopo la prima stretta di mano, sei costretto a raccontarmi tutto della tua vita. Quando, dove e come sei venuto al mondo. Cosa ti è successo da bambino. Che tipo di adolescente eri. Quale lavoro hai scelto e chi hai sposato. Quanti figli hai? Com’è la tua vita da uomo adulto, quali sono i tuoi vizi, le tue abitudini, i tuoi acciacchi? E prima ancora, cosa ti ha lasciato l’eredità genetica della tua famiglia? Imparo a conoscerti in appena venti minuti, perché ti apri, esci dal tuo guscio, come se stessi parlando con il tuo più caro amico. Senza riserve. Rotto il ghiaccio, come al primo appuntamento, entro in contatto con te. Comincio a toccarti e ad ascoltarti. Come un amante esperto so dove mettere le mani. Cerco di carpire un rumore, un soffio, un ostacolo, segnali della presenza di un qualcosa che voglio trovare. E tu mi lasci fare, ti fidi di me. Quel “mio” sono occhi tristi, che aspettano una soluzione, quando è possibile, un farmaco o una persona cara, che a sua volta non si stancherà di aspettare per poterti vedere anche solo per un ora, per rubarti quell’ora di solitudine. O piu semplicemente, quelgli occhi tristi aspettano me e il mio camice bianco. Non è difficile accorgersene. E’ un simbolo. Dentro quel camice c’è qualcuno che può aiutarti. Quel camice è un depositario di speranze e di domande, che ti vengono poste a raffica senza tanti giri di parole, come le tue risposte. Perché a volte le parole possono essere più taglienti di un bisturi. Molto spesso, a quelle domande cariche di futuro non posso e non voglio rispondere, per non leggere in quei “miei” la paura e il dolore. Sentimenti che conosco bene ormai, ma ai quali non voglio arrendermi o peggio ancora, abituarmi. Quel “mio”, sono i nomi di uomini, donne, ragazzi, bambini, con delle vite variopinte e piene di sogni e progetti. Persone, che ho la fortuna di conoscere e non solo incontrare, perché dal contatto tra due anime si genera sempre un qualcosa che si annida dentro di noi, trova il suo piccolo cantuccio e resta lì, c’è..In questi giorni sto imparando che “mio” non è suscettibile allo scorrere del tempo. In fondo il tempo cos’è, se non il ticchettio scandito dal mio orologio, che mi consente di contare i battiti di un cuore? No, quel “mio” va ben oltre. Sono passati appena due giorni in questo posto nuovo. La routine è la stessa, ma i pazienti no. Manca qualcuno. Quel qualcuno, appena intravisto, che è stato capace di inchiodarmi davanti allo schermo di un monitor per un attimo, che è sembrato infinito, un tempo fermo scandito da un beep. Non sarebbe servito a niente stare lì, e comunque c’erano troppe cose da fare. Finito il “turno”, io e il mio camice bianco, siamo tornati a casa, con la gelida certezza che oggi, non l’avrei incontrato. Così è stato. Ci si abitua, è triste, ma è vero..tutto è da mettere in conto nel lavoro che spero di poter fare.

C’era qualcun altro in quel letto anonimo. Ma quel posto, rientrando oggi, io l’ho visto vuoto

.Oggi, quel “mio” è diventato una certezza.

21 grammi

Seduta su una scomoda sedia di pelle rossa di una fredda sala di attesa, fisso il pavimento davanti a me. Non penso a nulla, tento di non ascoltare i discorsi della gente, il cui tono della voce mi infastidisce e la cui profondità è simile al bicchiere che contiene i residui del mio caffè. Provo a leggere il libro che ho con me, ma con scarsi risultati: le parole che scivolano sotto i miei occhi a cui la mia mente da voce si confondono con le frasi urlate dalla gente che mi circonda.  Spazientita dall’attesa, dai rumori molesti che non posso definire voci, dall’incompetenza di infermiere e impiegati inetti che sono stati scelti a svolgere un lavoro per cui non sono portati, chiudo il libro e comincio a leggere altro. Leggo i loro volti.  Accanto a me c’è una giovane donna, non avrà più di 18 anni. Tiene in braccio un bambino di appena un anno, che dorme poggiando la testa libera dai pensieri sul petto magro e inospitale di una madre troppo giovane. Mi chiedo se sia felice, se abbia scelto quella vita o se la vita ha scelto per lei. Provo ad immaginare il momento in cui scoprì di portare in grembo una creatura: mi sembra di poter vedere l’ombra di paura che passa sul suo volto così giovane, le labbra contratte in una smorfia di panico ed i suoi occhi fissare increduli quella linea colorata che sembra sussurrarle “la tua vita è appena stata sconvolta”.  I miei occhi furtivamente cercano gli occhi di lei e vengono colpiti da due sottili lame fredde, color ghiaccio, che mi spalancano davanti un vuoto senza fine. Imbarazzata distolgo lo sguardo da tanta infelicità. Mi concentro su un uomo, ma stavolta a parlare sono le sue mani: raccontano di una vita di sacrifici, sotto il sole cocente della Sicilia, di sveglie all’alba insieme al canto del gallo, quando tutto il mondo dorme e lui, con la sola forza delle sue braccia e della sua caparbietà, lavora la sua terra con amore, dedizione estrema e disperazione.  Perché quella terra è tutto ciò che possiede e con i frutti che essa gli dona riesce a campare quella moglie stanca che adesso è al suo fianco, e quei figli emigrati chissà dove di cui lei parla con chiara commozione a due signorine sedute di fronte. Queste ultime sembrano le uniche presenti ad avere un volto scevro di passione: i capelli perfettamente raccolti sulla nuca, indossano un lutto di chissà quanti anni dedicato ad una madre deceduta chissà quando e stringono tra le mani un rosario consumato dalle infinite preghiere che nessuno ha mai ascoltato. Ogni tanto il loro sguardo apparentemente indifferente si poggia sulla mia gonna e, tra gomitate e ammiccamenti, sussurrano chissà cosa l’una nell’orecchio dell’altra, continuando a stringere i grani del rosario e chiedendo alla Beata Vergine di purificare la loro anima alla visione delle mie gambe nude.  Sorrido.

Ad un tratto il tempo pare fermarsi. Tac. Lancette ferme. I  secondi smettono di scorrere. Una donna al mio fianco, con la quale avevo scambiato chiacchiere di circostanza, si alza lentamente per la sua visita. E’ un secondo. La vedo accasciarsi sul pavimento, gli occhi girati all’indietro, la bocca spalancata. Tac. Il tempo si è fermato. La giovane madre scappa fuori con il figlio in braccio urlando di paura, le due comari zitelle pregano ad alta voce Dio e tutti i Santi del Paradiso, il contadino e la consorte si abbracciano come se fosse arrivata l’Apocalisse, mentre le infermiere incompetenti escono da una stanza all’altra alla ricerca di non ho mai capito cosa. Il tempo si ferma. Mi precipito sul corpo inerme della mia vicina di sedia, la mia mano stringe la sua nuca, le sollevo la testa. Chiedo a qualcuno di passarmi la bottiglia d’acqua che porto con me nella borsa e comincio a versarle il liquido sul volto, sui capelli, ovunque. La stringo a me, sento il suo sudore sulla mia pelle, i suoi capelli bagnati tra le mie dita, il suo volto vicino al mio, ed io mi ritrovo a pregare per una vita che fino ad un’ora prima neanche sapevo esistesse. Pensieri confusi attraversano la mia mente. Guardo quel volto estraneo e vorrei fare di tutto per porre fine a quel dolore.  Arrivano finalmente i soccorsi, ma io non lascio la presa, le mie dita continuano a stringere la sua nuca. Basta così poco per avvicinarci ad una persona estranea, che estranea non è. Il tuo dolore è il mio, quello che tu senti l’ho sentito anche io milioni di volte ma tu non lo sai. I sacrifici che tu fai, le tue speranze, i tuoi sogni, le tue paure, i tuoi buoni propositi appena sveglia al mattino, le tue bestemmie, i tuoi progetti, i tuoi fallimenti, le tue gioie sono le mie. Siamo fratelli, siamo sorelle. Le nostre vite sconosciute l’una all’altra sono parallele. Viviamo sotto lo stesso cielo, fissiamo le stesse stelle, sogniamo alla vista della stessa luna.  Cosa ci divide? Interessi, status sociale, città, famiglia di appartenenza, conto in banca, il gusto del gelato, il colore dei capelli. Cos’altro? La tua vita ha lo stesso valore della mia. 21 grammi: il peso dell’anima. 21 grammi, quello che perderemmo esalando l’ultimo respiro. Ma cosa vi è in questo peso così leggero? 21 grammi.

Un caffè tra le mani

Sono seduta al tavolo del bar sotto casa. Decisamente molto più carino di quanto non lo fosse qualche anno fa. Tavolini quadrati di un grigio chiarissimo a ciascuno dei quali è accoppiata una panca in pelle rossa, una sedia bianca e una nera, come i grandi vasi ai lati dell’ingresso con dentro degli alberelli appena accennati a ricordarmi che il locale ha una nuova vita.  A ripararmi dal sole, i saggi alberi della “Palermo bene” sono aiutati da ombrelloni blu intenso. Alle mie spalle, mi protegge dalla vita che scorre, una palizzata di vasi, le cui piante si muovono sinuose insieme ai miei capelli, mosse dal vento.

Osservo la vita scorrere dentro questo posto. Accanto a me un’estiva coppia di amici discute animosamente, il camerirere trasporta due invitanti vassoi, dentro la macchina di una cliente, ferma sulla porta a contarollare i bambini. Tanti dentro parlano e sorridono di fronte a un caffè, dei ragazzini mangiano e un uomo solo, come me, legge il giornale. Davanti al mio tavolo,  il piu defilato, è una sfilata di vite. Vecchine con il fidato carrello per la spesa, ragazzi spensierati, una giovane coppia con i bambini piccoli che si tengono per mano, studenti, due giovani amiche che si guardano e sorridono. Rivedo me stessa. Quante vite si possono osservare seduti al tavolo di una bar?

Continuano ad arrivare, queste vite, e a mischiarsi tra loro, alcune rimangono un po’in disparte quasi a non voler disturbare quelle degli altri o magari sono troppo gelose della propria per esporla, altre si incontrano, altre ancora sembrano aspettarsi qui. Lo vedi dai volti che si illuminano, dai sorrisi spontanei, dalle mani che si allungano e dal “cosa posso offrirti?” Già, perchè ci si offre sempre qualcosa. Dal caffè, anche con gli ultimi spiccioli che hai in tasca, a qualcosa di più profondo, di tuo. Seduti uno di fronte all’altro, con le mani occupate a portare ritmicamente alla bocca una piccola tazza di porcellana bollente, si possono trascorrere ore ed ore a raccontare e raccontarsi, a condividere. Riesco a percepire la magia che cela un incontro, seppur gratuito, quel qualcosa che ti spinge a guardarti intorno quasi a cercare visi familiari o curiosamente nuovi. Può succedere qualunque cosa in qualunque momento della nostra vita. L’imponderabile è il motore dei nostri cuori. Ti potrebbe capitare di incontrare due ragazzi, che divorano quasi una torta intera di fronte a una tazza di cioccolata, e cominciare a scherzare con loro come se foste sempre stati amici, con complici occhiate e sguardi di intesa, che magari non hai mai trovato nelle persone che ti stanno accanto, e alla fine ridisporsi per creare un unico grande tavolo, per stare insieme.“L’uomo è un animale sociale”e non c’è niente di più vero in questa città, che sa accoglierti, coccolarti, aiutarti senza chiederti nulla in cambio.

 Dove ci si saluta sempre con un “arrivederci”.

Pimpa da Pempe

C’era una volta un paese lontano lontano di nome Pempe, piccolo villaggio di marinai e pescatori, dove il mare non era solo mare, ma una promessa. Prometteva cibo, danaro, ricchezza e, soprattutto, prometteva sogni. Si, il mare di Pempe era proprio un mare speciale. Le onde, infrangendosi sulla riva, sussurravano a chi le fissava storie di regni remoti, che avvenivano lì, proprio oltre l’orizzonte, proprio oltre quella linea color nulla che divideva l’acqua dal cielo.

Quando il sole si nascondeva dietro il mare, palla di fuoco che pareva cadere nell’immensità del blu, Pimpa era solita raggiungere la spiaggia. Portava con sé un libro, che mai leggeva, sedeva su uno scoglio, ammirava l’infinito che si spalancava davanti ai suoi occhi, ammirava la montagna bianca che scendeva a precipizio sul mare, la Scala dei Turchi la chiamavano, ed immaginava uomini dalla pelle bruciata dal sole che, abbandonate le loro navi arabe, scalavano la bianca roccia per saccheggiare le coste della Sicilia e non si chiedeva se questa fosse solo una leggenda popolare, come le storie che aveva letto ne “Le mille e una notte” e sognava, immaginava, vedeva quegli uomini dagli occhi pieni di speranza,  voglia di conquista e dolore. Ma, ad attirare la sua attenzione  erano due scogli, due piccoli sassi in confronto alla maestosità della bianca roccia, che venivano fuori dal nulla, dall’immensità del mare dai fondali limpidissimi. U scogliu do zitu e da a zita, così si chiamavano. Pimpa li fissava ammaliata perchè essi le raccontavano una storia di un tempo lontano, quando due innamorati, ostacolati da un padre crudele e malvagio, si  gettarono dall’alto del promontorio giurandosi amore eterno. E nel punto esatto in cui caddero nacquero quei due scogli che, a guardarli da lontano, sembrano due corpi vicini adagiati sull’acqua, che si sfiorano baciandosi.

Una storia da Montecchi e Capuleti, Shakespeare ci avrebbe cambiato qualche scena: con quel paesaggio splendido, altro che triste cripta dove far ammazzare due giovani innamorati. Insomma, Romeo e Giulietta sarebbe da riscrivere, pensava Pimpa. E così, con gli occhi pieni di cielo color tramonto, col cuore che batteva forte seguendo il  ritmo delle onde del mare e coi capelli che odoravano di vento, Pimpa abbandonava il suo scoglio che comodamente l’aveva accolta e, dando le spalle alla roccia d’argilla baciata dal sole, si incamminava sulla battigia, fissando le orme dei suoi passi che, dopo brevi istanti, sparivano nel nulla, come a volerle ricordare che lei non era mai stata lì. Una volta a casa, dava un bacio alla sua mamma e alle sue sorelle, sorrideva felice della sua famiglia apparentemente matriarcale, dove numericamente le donne erano superiori agli uomini ma dove un solo uomo riusciva a tenerle a bada con un solo sguardo, un consiglio, una parola. Abbandonava sorrisi, risate spensierate che accompagnavano racconti vari e raggiungeva la sua camera, il suo rifugio. Passava ore sul suo letto, con la testa poggiata su un cuscino al quale forse arrivavano i pensieri che la sua mente elaborava, glieli confidava. Leggeva,  divorava libri, fisicamente ferma, immobile in un stanza qualunque di una casa qualunque di Pempe, ma viaggiava. Aveva conosciuto il mondo attraverso pagine e pagine di emozioni. Da lì, aveva imparato a conoscere la gente. Era protagonista di tutti i libri da lei letti, sentiva le emozioni di personaggi mai esistiti, calde lacrime vere bagnavano il suo volto per amori che lei non aveva vissuto. E mille volte amò, mille volte soffrì, mille volte morì e mai si stancò di vivere vite non sue. Voleva una vita piena di emozioni e per questo mai si accontentò. Ascoltava con volto sereno e sorrisi leggeri i racconti delle sue amiche che, crescendo, impararono l’arte di amare. Ma non vedeva nei loro occhi quel qualcosa che brilla di mille luci, quel qualcosa simile ad un sogno.

E così attese. Il principe azzurro arrivò. Senza calzamaglia, senza cavallo bianco e senza pennacchio. Di azzurro aveva gli occhi, che le ricordavano il mare della sua Pempe. Fu un amore di sogno e realtà, vero, intenso, vissuto. Per lui mille volte aveva amato, mille volte aveva sofferto, mille volte era morta ma mai si stancò, proprio come le sue eroine. Pimpa crebbe e venne il momento di lasciare la sua Pempe, dove il tempo sembrava non passare mai, nonostante le lancette di orologi appese ai muri scandivano lo scorrere delle ore. Arrivò in una grande città, con suoni, odori, colori distanti anni luce dal suo regno ormai lontano. Non ebbe paura, aveva imparato che la vita era un rischio, senza rischio non ci sono emozioni, senza emozioni non esisterebbero libri. E lei questo voleva: vivere come in un libro. Ma imparò anche a vivere di realtà, fatta di bollette da pagare, scadenze da rispettare, esami da sostenere, fare il bucato, spazzare, pulire, preparare il pranzo, la cena, il caffè al mattino, fare la spesa, perdersi tra gli scaffali dei supermercati, comparare prezzi, scegliere. Un giorno il principe azzurro la chiamò dal suo regno lontano lontano dove egli si era trasferito: non la raggiunse nessuna missiva con della ceralacca, come immaginava leggendo quei romanzi ottocenteschi che le avevano fatto credere che il “vissero felici e contenti” fosse possibile. Il principe, con frasi regali e nobili, le disse addio. Altro che incantesimi, anatemi, streghe cattive, mele e fusi avvelenati! Il principino molla la sua principessa senza tanti fronzoli e giri di parole, quanta fatica si sarebbe risparmiata la Disney! Da quel momento arrivarono altri principini con i quali Pimpa fece un percorso, lunghe passeggiate a piedi, senza cavallo bianco. Crebbe. Questa volta senza tomi, libri, volumi. Finalmente fu la protagonista del suo libro. Lo scriveva pagina dopo pagina. E capì che da sola era la migliore protagonista che un best seller avrebbe potuto avere. Si guardava intorno e leggeva solitudine, disperazione, infinita tristezza negli occhi di quelle amiche che al suo “come stai?” rispondevano “Benissimo! Una favola”. Ma non sapevano che Pimpa aveva acquisito un dono: leggere la gente. E sapeva che se la loro era una favola non era di certo con un lieto fine.

Ogni tanto faceva ritorno nella sua Pempe. La gente del paese non la riconosceva più, le capitava di allungare la mano e presentarsi con persone conosciute anni addietro, ma che non ricordavano il suo volto e si chiedevano curiosi “Tu sei davvero di Pempe?”. Le vicine la credevano una snob, semplicemente perché non raccontava di sé, non sbandierava a destra e manca la sua vita, come i panni stesi ad asciugare nei loro balconi sotto il sole caldo di Pempe. E chissà cosa dicevano su lei. Pimpa non lo volle mai sapere e forse mai se lo chiese, sorrideva sotto i loro sguardi curiosi mentre, con la sua valigia piena di vestiti e di speranze, ripartiva.

Ripartiva per una méta che méta non è mai stata. Sapeva che prima o poi le suole delle sue scarpe avrebbero calpestato strade di chissà quali altre città, di vie che si aprono ad altre vie, dove perdersi ancora, per ritrovarsi. Perché Pimpa, dagli occhi grandi e tristi, era avida di vita. Rubava brandelli di esistenza trovati qua e là, non era mai paga. Scavava dentro le persone col suo sguardo curioso e non le bastava mai. Ogni posto che visitava lo sentiva suo e, quando se ne separava, sentiva una strana fitta dentro, di dolore. Quel posto se lo portava nel cuore, ovunque lei andasse. Lei possedeva tutto e tutti. Ma chi possedeva lei? Tanti tentarono di fermarla, ma nessuno riuscì mai a capire dove andasse con la mente Pimpa di Pempe che, nonostante fosse circondata da centinaia di persone, continuava a chiedersi quale fosse il suo posto nel mondo.

Cabina armadio

Dopo aver bevuto un caffè dimenticato sul fondo della caffettiera, immaginando che sia stato lasciato lì apposta per me, comincio a mettere un po’ in ordine. Sono cirdondata da oggetti, tanti, forse troppi. Tutti voluti ovviamente, ma alcuni “in questo momento storico”sono di troppo. Tutto, una volta superato il fervore iniziale che potrebbe durare anche anni-attenzione- puo’ diventare superfluo.Ti ritrovi circondata da una caleidoscopica marea di maglie e magliette, e nonostante lo sforzo di impilarle seguendo la gradazione di colore, ci sarà sempre qualcosa che suonerà come un pugno nell’occhio. Lo stesso vale per le gonne, i pantaloni, i vestitini, i cappotti. Le scarpe no, quelle non sono mai troppe. Così come le borse. Il motivo è semplice.La quantità di scarpe e borse che possiedi è direttamente proporzionale al numero di accoppiamenti, sempre nuovi, che puoi farne. Ergo, non ti stancano mai, il “di troppo” non è ammesso. E se questo fosse vero anche per le relazioni interpersonali? Ogni persona che hai voluto nella tua vita, perché le persone si scelgono, ti dà qualcosa. Interpretalo come la sfumatura di colore che cercavi o come il dettaglio che fa la differenza o come il gioiello che ti impreziosisce. Per la stessa ragione ci sono giornate da trascorrere solo con alcuni piuttosto che altri o solo con qualcuno, il tubino nero già corredato di scarpe e borsetta, quello di cui non ti stancherai mai, che mai sarà fuori moda. Ecco la tua cabina armadio, il sogno di ogni donna. L’hai riempita giorno giorno con le persone che ti piacevano di più, che hai desiderato, che in quel momento dovevi necessariamente avere…perché “non avevi nulla da mettere”. Le vetrine che ti hanno attratta maggiormente sono il solito tavolino del bar sotto casa, di fronte alla solita libreria –che ormai è sempre più piena di cioccolata o pasta o sfiziosi intingoli, piuttosto che di libri che ti insegnano a usarli o a prepararli. Sono i vicoli tentacolari, i giardini e i mercati di questa città che continua ad ammaliarmi.Lì li hai visti, hai pensato che avrebbero potuto vestirti bene, magari anche valorizzare i punti giusti e li hai presi, con una stretta di mano e un sorriso e poi una valanga di parole. Ne hai cura, tanto da riporli bene nella tua cabina armadio, in ordine e sempre abbastanza comodi in modo tale che non si sgualciscano e li carezzi sempre. Orgogliosa li guardi e sei soddisfatta dell’ ”acquisto”.Insieme guardate la vostra immagine riflessa dallo specchio a figura intera -fondamentale- e sorridete. Qualcuno con il tempo si rovinerà, ovvio la moda cambia, magari perché di scarsa fattura, o perché non te ne sei presa cura abbastanza; o più semplicemente perché non voleva essere più tuo. Altri saranno sempre perfetti, non una piega, non un pallino, non una smagliatura tra le trame. Quelli li avrai sempre con te, e anche quando non sarai del mood giusto, saranno loro a voler stare con te. Altri continuerai a cercarli,ci sono così tanti negozi da guardare! E quando lo avrai trovato, lui, il tubino nero corredato da accessori, allora comincerai a riempire una nuova cabina armadio. La vostra.

 

Naaley

Quando è stata l’ultima volta che ho indossato questo pullover? Lo tiro fuori dalla valigia, è sgualcito, lo guardo, sorrido. Me lo porto al naso, affondo le narici tra le trame di cotone, sento il mio profumo misto all’odore di tabacco. E’ un istante. Non serve la macchina del tempo, no. Nessuna leva viene azionata. E’ come guardare una vecchia foto che ritrae gente proveniente da chissà dove, chissà.. La luna splende alta nel cielo, la guardo, sorrido. Le  luci della città illuminano i nostri volti giovani, pieni di vita, paonazzi per la troppa birra, che troppa non è, e per le risate spensierate che si elevano leggere nel cielo di Palermo. Siamo così belli.

Brindiamo alla vita, alla nostra vita. All’amicizia, alla nostra amicizia, fatta di lunghi sguardi, intese, complicità, confessioni, sospiri, sussurri nel cuore della notte, una notte lunga come le cose che abbiamo da dirci, che non sono mai abbastanza, mai troppe. I nostri bicchieri colmi di felicità si alzano al centro del tavolo, pronti ad incontrarsi tra di loro, a sfiorarsi per un ennesimo cin cin, occhi negli occhi, sorriso su sorriso. Nessun progetto ci attende, il futuro è lontano, nessun domani a cui pensare. Tutti i domani del mondo annegano in un bicchiere di tequila, e lo mandiamo giù col sapore agre di una fetta di limone. E chi ci pensa più? Non esiste passato. Non esiste domani. Siamo qui adesso, camminiamo sul filo del presente e, come un acrobata del circo, manteniamo l’equilibrio tentando di non cadere giù, nell’abisso del Naaley. Lo squillo del telefono mi riporta alla realtà, la sensazione è simile a quelle notti in cui mi sveglio di soprassalto sognando di cadere. Sono nella mia stanza, i libri perfettamente allineati nella libreria in ordine di grandezza, valigie ancora da disfare che contengono mesi di ricordi, decine di foto alle pareti ed io, col mio pullover in mano, poggio lieve il mio sguardo su tutto ciò che mi circonda, che mi appartiene, come polvere leggera che su tutto si posa, che tutto carezza. Copertine di testi divorati negli anni, bigliettini scritti da un’amica lontana ingialliti dal passaggio inesorabile del tempo su di essi, volti che mi sorridono dalle loro cornici sembrano assalirmi, in un turbine folle di ricordi. Mi trovo al centro esatto del presente. Non c’è passato. Tutto ciò che sono adesso è qui, tra le pagine di questi libri, negli sguardi di queste foto, nel profumo che emana questo maglione. Ed una sensazione nuova mi assale: la certezza, ormai non più sradicabile, che ciò che sono è esattamente ciò che ero. E ciò che sarò è ciò che sono oggi. Non esiste domani, non vi è alcun Naaley. Il tempo non esiste e l’eternità è un lusso che solo gli déi possono permettersi. Sangue che scorre, vita che pulsa nelle vene, carne che freme, pelle che brucia di desiderio siamo. Il domani è una promessa, una promessa che nessuno può mantenere.

Il domani è già passato nella speranza del presente.